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LA MUSICA NELLA DANZA E NELLA CONTACT

Cartellone realizzato durante una ricerca al “Contact Camp 2015”

Voglio qui descrivere, motivandola, la mia visione su questo argomento molto discusso.

Non credo si debba trovare una soluzione unica per tutte le situazioni ma può essere utile portare l’attenzione su alcuni aspetti. Spero inoltre che questo sia un documento utile per i musicisti che vogliano avvicinarsi a questo ambiente così ricco di stimoli e dinamiche relazionali.
Porterò il focus sulla Contact Improvisation, ma alcuni meccanismi credo siano validi anche per altri stili di danza che hanno a che fare con l’improvvisazione e la musica.
Ho qualche anno di esperienza in entrambi gli ambiti e anche se lontano da un livello professionale (sia nella musica che nella danza) ho sempre portato il mio osservatore interno a braccetto con le esperienze che vivevo.
Qualche anno fa all’interno di una stessa jam mi sono trovato ad alternare più volte il ruolo di musicista e danzatore. Ho realizzato in quella occasione un concetto che più tardi avrei compreso anche ad un livello più profondo: l’impulso iniziale all’improvvisazione, che sia suonare, dipingere o danzare, è sempre lo stesso. Ha sede nel sistema nervoso ed è legato al “cosa fare”. Lo step successivo “come fare” si manifesta con diverse modalità (musica danza ecc.) attingendo ad una tecnica e ad una capacità specifica.
Un danzatore e un musicista che improvvisano si trovano quindi, ad un livello primario di intenzione, nello stesso stato. Se a questo aggiungiamo il “farlo insieme” si definisce tra loro una risonanza (necessaria per una vera connessione) e un obbiettivo comune.
Perché due oggetti siano in risonanza tra di loro devono essere in fase (costruttiva) e se uno dei due varia l’altro deve immediatamente accordarsi. Apparentemente molto semplice se non fosse per il fatto che l’improvvisazione richiede una variazione continua (vi rimando agli altri articoli per questo concetto).
La connessione tra i due diventa quindi una ricerca di equilibrio continua sotto l’impulso dello stimolo dell’improvvisazione che apporta continuamente qualcosa di nuovo e di fatto una sorta di squilibrio. È proprio questa dinamica (simile al concetto di momentum nella CI) a determinare il movimento, dei suoni e dei corpi.
Osservando i grandi musicisti di improvvisazione possiamo vedere come siano fisicamente molto attivi, in una sorta di tensione rilassata dovuta ai sensi sempre accesi e vigili. Il loro coinvolgimento fisico è dato dell’attività concentrata del sistema nervoso che fisiologicamente pervade ogni parte del corpo.
Il musicista che improvvisa con il danzatore quindi dovrebbe risultare fisicamente acceso, coinvolto dal movimento che osserva e sotto l’effetto dei neuroni specchio trovarsi nello sperimentare sensazioni simili. Non di rado infatti si vedono nella contact musicisti che si muovono nello spazio intorno e tra i danzatori e qualche volta addirittura entrare nelle danze.
Lo sguardo del musicista deve essere necessariamente, per buona parte del tempo, sul danzatore, a scapito dell’occhio sul proprio strumento di cui deve avere per questo una buona padronanza. Il danzatore, per ovvie ragioni, non può guardarlo ma si connette attraverso l’ascolto uditivo e sensoriale.
Bene, ma cosa succede se i danzatori sono tanti, come nel caso di una jam?
Credo che quando più persone condividono uno stesso spazio con disponibilità, apertura e obbiettivi comuni si crei una sorta di atmosfera, risultante di tutte le essenze risonanti, che rappresenta una unica entità con cui il musicista può relazionarsi. Il suonatore può anche, senza imporsi, aiutare la creazione di questa unità di gruppo oppure focalizzarsi in momenti diversi su uno o più danzatori. Se il suo obbiettivo è sostenere il gruppo la sua attenzione e la sua sensibilità lo guideranno nel migliore dei modi possibile.
La musica occupa lo spazio?
Credo di si. È una percezione soggettiva ed energetica ma spesso condivisa.
Ci sono diversi casi in cui abbiamo la sensazione che l’aria sia satura e sembra non possa contenere altri suoni, le note cominciano ad essere confuse, poco distinte e si sente bisogno di silenzio. La musica, a differenza di uno corpo, si espande in tutta la sala e ha quindi un forte potere riempitivo. Musica e danza dovrebbero condividere tale spazio lasciandone comunque una parte libera, essenziale alla possibilità e alla libertà di movimento.
Quello che descrivo qui non è sul piano temporale, cioè alternare musica e silenzio, ma sul piano della densità e presenza. Troppi suoni saturano la percezione uditiva togliendole la possibilità di registrare stimoli più sottili e disponendola solo alla ricezione di un maggior volume, che finirà inevitabilmente per intasare lo spazio e la percezione dei danzatori (sotto una cascata di pietre non possiamo sentire una farfalla che si poggia sulla nostra mano). Un’immagine interessante può essere quella di corpi che trovano spazio tra le note per muoversi e danzare.
Un grosso capitolo è il tipo/genere di musica.
Mi torna molto quando sento Nancy Stark Smith dire “il ritmo altera il nostro rapporto con la gravità”. È vero, dà una cadenza, ritmica appunto, che ci porta nella sua dinamica facendoci perdere la nostra personale e quella che si sta creando in quel momento con il partner. Ci sostiene, è vero, ma ci uniforma e ci scandisce in una ripetizione (antitesi dell’improvvisazione) togliendoci una certa libertà. Certo posso interpretarla, ma non riuscirò mai ad ignorarla per seguire il mio sentire interno. Il ritmo, come anche la melodia, attingono in modo inconscio alla nostra esperienza ‘passata’ legata ad anni di ascolto della musica. Ritmo e melodia ci fanno muovere, ed in questo ovviamente riconosco un aiuto, ma ci allontanano dalla percezione del nostro corpo nel ‘presente’. Sono fenomeni troppo conosciuti per riuscire ad ignorarli, potenti nel richiamare un’energia ben precisa, nel farci stare bene, comodi e in una sensazione di piacere. Una zona di comfort che però non è prerogativa dell’improvvisazione, che invece ha a che fare con la risoluzione di un evento improvviso (improvvisation). Se date, di nuovo, uno sguardo alla musica di improvvisazione vi accorgete di quanto è imprevedibile (così come dovrebbe essere/o era la Contact improvisation).
È interessante osservare cosa succede nelle jam dove c’è musica, diciamo più classica, strutturata sulla base di ritmo/melodia. Grande energia quando c’è il suono e crollo quando il brano finisce, con cessazione del mondo degli stimoli perché chiaramente affidato quasi esclusivamente ad una fonte esterna. Nella mia idea non ci dovrebbe essere un inizio e una fine della musica, ma come un’essenza sempre presente, a volte più, a volte meno, a volte con il suo silenzio. Il silenzio come una qualità del suono.
Fare spesso delle silent jam è un buon allenamento, soprattutto per i principati, per non viziarci a tale aiuto e comodità.
Da quanto detto finora è chiaro che il sistema dei loop, molto usato negli ultimi tempi, è la negazione dell’improvvisazione, l’esaltazione della prevedibilità e del riempitivo. L’improvvisazione è un processo creativo, non ripetitivo.
L’idea di questo “less is more” è ancora più a rischio se ci sono più musicisti, che ovviamente non amano restarsene con le mani in mano. Allego a questo articolo un cartellone fatto anni fa in un contact camp dopo un settimana di esplorazione sul tema. I musicisti dovrebbero ascoltarsi tra di loro e comprendere a livello di gruppo il loro impatto sull’ambiente.
Non è facile.
Uno degli aspetti che può essere d’aiuto è il comprendere che il tempo e la relazione tra silenzio e suono è percepita in modo diverso da musicisti e danzatori. Un pianista, ad esempio, potrebbe annoiarsi nel fare una nota ogni dieci secondi, cosa che invece non disturba il danzatore che riempie quel vuoto con il suo movimento. Questo disagio può facilmente portarlo a fare qualcosa in eccesso, togliendo spazio alla danza. La soluzione, che risolve anche la noia, sta nell’immedesimarsi nel danzatore, risuonare con lui e con la sua percezione, vibrare con il suo corpo e godersi il silenzio che gli si sta creando.
Credo sia veramente una grande arte di sensibilità suonare per i corpi in movimento.
Creare un mondo di stimoli a cui i danzatori sono liberi di attingere o meno, come se i suoni fossero altri corpi, altre possibilità è un meraviglioso regalo che il musicista può dare allo spazio. La contact non ha bisogno della musica come un musicista non ha bisogno della contact, forse proprio per questo si può realizzare una connessione arricchente per entrambi.
Le più belle jam con musica per me sono quelle in cui non ricordo il tipo musica che è stata suonata ma so per certo che è stata presente. Non la riconosco più per quella che è ma per ciò che ha prodotto nella mia danza. Non l’ho ascoltata, l’ho percepita e il mio corpo l’ha trasformata in movimento.
Poi ricordo anche una bella danza su Creep dei Radiohead 🙂)))